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All’inizio di dicembre lo speleologo e vicepresidente di La Venta, Francesco Sauro, è stato invitato a tenere la lectio magistralis per l’inaugurazione del 931° Anno Accademico dell’Università di Bologna, l’ateneo più antico del Mondo. Qui riportiamo le sue impressioni, e la pubblicazione in questi giorni insieme con altri ricercatori Unibo di un nuovo importante articolo scientifico frutto delle ricerche del Progetto Tepui di La Venta.

Ho cominciato a fare speleologia per la curiosità di guardare oltre il buio, l’emozione di esplorare terre nuove e per quella sensazione inebriante di rimanere meravigliati di fronte a ciò che la Natura nasconde ancora ai nostri occhi. All’inizio si trattava di una ricerca personale, era la volontà di comprendere il mondo oscuro sotto i nostri piedi: divoravo libri e racconti, cercavo di cogliere tutto quello che potevo imparare dai grandi maestri come Giovanni Badino, Giancarlo Pasini, Norbert Casteret e tanti altri. Ho sempre avuto la sensazione che questa voglia di scoprire non fosse un sentimento esclusivo degli speleologi ma che fosse qualcosa radicato nel DNA di tutti gli uomini. Tuttavia, quando provavo a raccontare le avventure vissute nei meandri della Spluga della Preta e nelle infinite gallerie dei Piani Eterni, mi scontravo con la difficoltà di far comprendere alle persone estranee a questa attività la motivazione universale che ci porta ad affrontare tante fatiche e disagi.
A distanza di ormai quasi vent’anni da quelle prime esplorazioni personali, mai avrei pensato che un giorno la speleologia esplorativa e di ricerca avrebbe raggiungo un pubblico così vasto come sta succedendo in questi anni. Una volta sentivo dire da tante persone “Io in grotta non ci andrei mai, ma cosa ci trovate di tanto interessante?”. Ora invece la frase è cambiata in un senso di positività e sottile invidia, ci riconoscono come dei privilegiati: “Io non ce la farei, ma guardando quelle immagini capisco il fascino di ciò che fate”.
Tutto questo è il frutto di un processo di comunicazione facilitato anche dall’avvento della fotografia digitale. La tecnologia ci ha permesso di portare a un pubblico ben più vasto immagini spettacolari di quei mondi nascosti, sicché oggi tutti possono mettersi nei panni degli speleologi, ultimi esploratori della terra. La Venta ha avuto senza dubbio un ruolo importante in questo processo. L’associazione è sempre stata dinamica e aperta a progetti di grande respiro, e grazie all’approccio multidisciplinare riesce a mostrare non solo la bellezza ma anche l’importanza scientifica della speleologia.

In seguito alle scoperte e ai riconoscimenti ricevuti per il Progetto Tepui, l’Università di Bologna, grazie alla sensibilità del Magnifico Rettore Prof. Francesco Ubertini, si è accorta di avere tra le proprie mura una disciplina affascinante e con enormi potenzialità. Oltre ad aver supportato finanziariamente le ricerche sulle grotte dei tepui, ne ha voluto dare lustro di fronte alla comunità scientifica tutta.
Quando mi è stato chiesto di tenere la lectio magistralis all’inaugurazione dell’Anno Accademico 2018-2019 mi sono sentito un po’ in difficoltà per una responsabilità così grande. Noi speleologi svolgiamo spesso esplorazioni incredibili alle porte di casa, ma lontano dai riflettori. Tendiamo a comunicare i nostri lavori esclusivamente all’interno della comunità speleologica, che è una vera e propria tribù. Ciò ci rende invisibili agli occhi del mondo, abituati alla sfavillante spettacolarizzazione di tutto. Questo ci ha protetti dall’autoesaltazione che invece affligge chi pratica altre attività che ormai hanno poco a che fare con l’esplorazione geografica.
Ma non possiamo più nasconderci. Negli ultimi anni le grotte, il Continente Buio, sono alla ribalta della conoscenza del nostro pianeta. Noi speleologi abbiamo la responsabilità di comunicare ciò che facciamo, e di farlo nel modo corretto, perché si tratta di un bene di cui noi dovremmo essere i primi guardiani, per proteggerlo e consegnarlo alle generazioni future.
Di fronte alla richiesta del Rettore ho quindi capito che non potevo tirarmi indietro: dovevo mostrare la speleologia per quello che è, un’infinita biblioteca di possibilità e di conoscenza, come l’ha descritta Giovanni Badino nel suo testamento morale.
Raccontare la speleologia di fronte a una platea di oltre 1500 persone, accademici, studenti, cittadini, è stato per me un momento emozionante. Mentre parlavo avvertivo dal pubblico la stessa meraviglia che ho provato di fronte ai cristalli di Naica, volando sopra i tepui, affacciandomi per la prima volta nella grotta Imawarí Yeuta, la Casa degli Dei. Ma l’emozione è continuata ancora più forte poco dopo, quando ha preso la parola Marica Branchesi, astrofisica dell’Università dell’Aquila. Dai mondi inesplorati sotto la superficie della Terra ci ha portato a guardare verso l’universo, nelle onde gravitazionali e nei buchi neri, fino alla formazione degli stessi elementi, osservati dai telescopi in un punto di luce di colore cangiante in seguito alla fusione di due stelle di neutrini. Mentre ci raccontava tutto questo, risultava evidente che l’esplorazione geografica è un concetto universale, che parte dalla nostra Terra, dal piccolo ma immenso mondo delle grotte, viaggia verso le galassie più lontane e si spinge fino a chissà a quali confini. Ho avuto la sensazione che la speleologia, portata allo stesso livello intellettuale dell’astrofisica, sia stata finalmente riconosciuta come una disciplina che espande la conoscenza della realtà in cui viviamo e ci apre spiragli di luce sulle grandi domande della scienza.
Il Cuore della Terra è stato la culla dell’umanità, il tempio buio dove è nata l’arte rappresentativa, il luogo del mistero dove si rifugia l’anima del passato e del futuro. Nelle grotte troviamo cristallizzata la testimonianza di tutta questa storia e possiamo seguire l’evoluzione dell’uomo come quella della vita stessa sul nostro pianeta.

Pochi giorni dopo l’inaugurazione dell’anno accademico è stato pubblicato sulla rivista Scientific Reports il frutto del lavoro di due anni di analisi e ricerche sulle stromatoliti di silice opalina dei tepui venezueleani. Si tratta di formazioni minerali depositatesi nell’oscurità della grotta nel corso di milioni di anni grazie all’attività di batteri sconosciuti. Abbiamo focalizzato la nostra attenzione su queste strane rocce perché nel 2008 il rover Spirit della NASA ha incontrato nel suo cammino sulla superficie di Marte depositi di silice con caratteristiche simili, che alcuni scienziati considerano come una possibile evidenza di presenza di vita microbiologica sul pianeta rosso.
Tra grotte, buchi neri e rocce marziane, la speleologia sta aprendo una strada nuova che ci insegna a guardare oltre la superficie delle cose, ci inietta quel desiderio di vedere al di là dell’orizzonte, di svoltare l’angolo per illuminare il buio più fitto. Non possiamo fermarci. Dove ci condurrà questo cammino è difficile dirlo, ma finalmente le grotte e la speleologia cominciano a essere riconosciute come una parte importante dell’avventura umana.

 

5/12/2018
Francesco Sauro

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