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Forse era distratto. All’uscita del Subterranean River una scimmia si è arrampicata su un ramo e gli è venuta incontro. Bella foto, ha pensato il fotografo. Ha puntato l’obiettivo ma, mentre metteva a fuoco, la scimmia è sparita dall’inquadratura. Bam. Uno schiaffo in pieno volto. La scimmia gli ha dato proprio uno schiaffo. Gliel’ha piantato con tutta la mano. E al fotografo quasi gli prende un colpo. Ha lanciato un urlo tremolante. Lei, la scimmia, era lì, incazzata e coi canini affilati bene in mostra.

“Brutto scemo, col mondo che c’è là dentro perdi tempo a fotografare me?”

Doveva essere distratto anche poco prima, il fotografo, mentre navigava dentro il grottone insieme ai suoi compagni. Hanno seguito il grande fiume che attraversa la montagna. Ma lui era distratto, distrattissimo: sono passati in gallerie enormi, tanto larghe da mettere in crisi il distanziometro, gallerie immense, eppure – toh – adesso non ricorda già come sono. La notte, prima di addormentarsi, ascolta il rumore del mare e tenta di dare un forma alle sensazioni che ha provato là dentro: l’eco della sua voce sotto la volta rocciosa scura, il rumore dei passi sulla sabbia, le nuotate infinite, l’acqua tiepida che fluisce attraverso il neoprene della muta, le migali e le scutigere appostate sulla riva, le salangane col loro incessante ticatac, i pipistrelli che dormono, a migliaia, appesi un po’ ovunque.
Lui, il fotografo, lì non ha scattato foto. Non c’era il tempo. E non aveva portato le luci. E così adesso, ecco, non sa come dire, insomma, è imbarazzante, non è capace nemmeno di ricostruire quei posti con la fantasia.

“Cinquanta metri?” Esitano un po’, lui e il suo compagno, prima di annotare il numero sul taccuino.
Ripetono la misura, la ripetono ancora.
“Cinquanta!”

“Questa galleria è larga cinquanta metri!”

Misurano temperature, portate, livelli delle maree, profili dell’alveo. Dati che servono agli scienziati della spedizione per cercare di capire il funzionamento del grande motore, quello che ha generato il mostro sotterraneo dell’Underground River, dei suoi affluenti e rami laterali, il propulsore che spinge il carsismo e fa girare la ruota della vita, che là sotto brulica, altroché se brulica.

Erano assolutamente distratti due giorni fa, questi esploratori, quando sono passati a pochi metri dal fossile e quasi non lo avevano visto. No, non un ramo alto abbandonato dall’acqua: il fossile, sì, una bestia che spunta dal calcare di venti milioni di anni, affacciata a tre metri d’altezza sul livello del fiume. Sembra un leone marino o qualcosa del genere. Lo hanno battezzato Laventino. L’erosione ha scovato quel mammifero dagli abissi del tempo e lui se ne sta lì, nel bel mezzo di una signora galleria sotterranea, e nessuno l’aveva mai visto. Ditemi voi se questa non è distrazione. Visto dalla barca, Laventino appare come un grumo indistinto, un crostone di calcite che ingloba qualche ciottolo. Invece è proprio un bel fossile perfettamente conservato.

Gli esploratori sono soddisfatti. La scoperta li riempie di entusiasmo, sicché la sera, all’ora di cena, programmano l’uscita fotografica del giorno dopo. Una prima squadra realizza qualche foto utilizzando un lungo monopiede ricavato da un bastone di legno cui è stata fissata la testa di un cavalletto fotografico. Le immagini parlano chiaro: si possono contare alcune grandi costole e due belle vertebre. Vengono fuori dalla roccia come dalla vetrina di una macelleria.

Così il giorno dopo mettono in piedi una seconda squadra fotografica: sette persone, due barche, una scala di bambù e qualche spezzone di cordaccia. Assicurano la prima barca a una lama di roccia e issano la scala. La seconda barca si allontana di qualche metro, per illuminare la scena e ambientare il soggetto, e nel frattempo fare un po’ di backstage. Il tutto è molto divertente: tocca al fotografo, ovviamente, salire sulla scala, visto che deve fare le riprese. Due dei suoi compagni si occupano di stabilizzare alla meglio il trabiccolo barcollante, un altro armeggia con un illuminatore. L’altra barca, di poco discosta, deve fornire un altro punto luce.
Alla fine riescono persino a fare delle riprese senza che il fotografo si spatasci in acqua con tutta la sua attrezzatura. Eppure era distratto. Mentre era sulla scala, aggrappato all’ultimo piolo, sperando che i compagni tenessero saldamente quei due tronchi di bambù, il fotografo scattava ma con la testa era altrove: pensava alle gallerie, agli ambienti immensi, sproporzionati, che stanno oltre il sifone del Rockpile, ai tubi ciclopici che portano fino all’ingresso del Daylight, otto chilometri a monte dell’estuario che si getta, col permesso delle maree, nel Mare Cinese Meridionale.

Se alla fine è venuta qualche foto buona è stato per puro caso. E se questa non è distrazione, cos’è?

NB: Tratto da una storia vera: il fossile lo abbiamo davvero, ed è bellissimo; gli abbiamo scattato delle foto che ora non riusciamo a caricare sul blog a causa della linea dati lentissima. E quanto alle scimmie, ci sono e sono bastardissime: non sono sicuro che essere presi a schiaffi da un macaco sia un’esperienza di cui vantarsi.

Nat

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